L’aumento delle temperature, anche alle nostre latitudini, ci opprime. Ognuno di noi l’ha sperimentato: sulla terraferma patiamo il caldo, cerchiamo l’ombra nelle ore più assolate, ci affidiamo a ventilatori e condizionatori per trovare sollievo dall’afa. Anche nelle acque di mari e oceani la temperatura cresce: e chi vive tra le onde soffre tanto quanto noi, o forse ancor di più. Delle conseguenze del riscaldamento climatico si è parlato nel webinar intitolato Il cambiamento climatico nel mediterraneo, organizzato nel quadro di Slow Fish 2021 - la manifestazione organizzata da Slow Food e Regione Liguria, a Genova dall’1 al 4 luglio. E le sorprese non sono mancate.
Addio a tanti cari pesci
Una cosa è certa, e ce la racconta Federico Betti, istruttore subacqueo, dottore di ricerca in biologia ed ecologia marina, zoologo marino e docente del corso di ittiologia presso Università di Genova: «Se la temperatura sale, come sta effettivamente accadendo, alcune specie scompaiono. Il loro posto verrà preso da altri organismi più adatti a vivere nelle mutate condizioni». Il mare, in altre parole, può adeguarsi: «Siamo noi, gli esseri umani, a non saperci adattare a questi cambiamenti - prosegue Betti -. Il problema, infatti, è che storicamente l’uomo utilizza l’ambiente marino per una serie di attività come la pesca, l’acquacoltura, lo sport subacqueo, la nautica, e anche semplicemente per tuffarsi e fare un bagno: tutte queste attività sono state possibili in un mare di un certo tipo. Se il mare cambia, cambieranno le attività che sarà possibile fare».
Gli effetti sulla pesca, ad esempio, sono già molto chiari. Ce ne parla Lorenzo Dasso, architetto, pescatore e ristoratore, titolare dell’Osteria Raieü a Cavi di Lavagna, nel Genovese, e cuoco dell’Alleanza Slow Food. È lui stesso, con la sua barca, a uscire in mare per pescare ciò che propone nel menù del suo locale: «Alle spalle ho quarant’anni di passione per la pesca e di avventure in mare - racconta - e non c’è dubbio che negli ultimi dieci o vent’anni l’ecosistema sia cambiato molto. Fino a poco tempo fa, a riva trovavamo i frutti di mare, i muscoli, le patelle e persino le ostriche, mentre oggi le scogliere si stanno desertificando».
Per pescare occorre andare sempre più lontano dalla costa ligure, raggiungere le aree in cui la temperatura è più bassa e dove i pesci trovano le condizioni migliori per vivere. Qualche esempio? «La triglia bianca viveva tra i 20 e i 40 metri dalla costa, mentre adesso la peschiamo oltre i 70. Il pesce prete lo trovavamo dai 20 ai 25 metri, mentre ora sta tra i 35 e i 70. La razza? Si è allontanata dai 25-30 metri di un tempo fino ai 40-60 di oggi. Il gambero rosa, per il quale ci spingevamo fino ai 200 metri, oggi lo peschiamo intorno ai 300-400. E il gambero rosso si è allontanato ancor di più: se un tempo lo trovavamo a 400-500 metri, oggi occorre andare anche oltre ai 700».
La quantità di pescato, prosegue Dasso, «è all’incirca la stessa di dieci anni fa, ma abbiamo dovuto raddoppiare lo sforzo: questo la dice lunga sullo stato di salute del mare». Chi pesca, oltretutto, non ha bisogno di termometri per capire quanto la temperatura sia aumentata: «Dieci anni fa, un blocco di ghiaccio usato per conservare il pesce mi durava cinque ore, oggi me ne dura tre».
C’era una volta un corallo…
«Negli ultimi venti o trent’anni, le acque nei pressi delle coste del Mar Ligure hanno fatto registrare un aumento di temperatura pari a uno o due gradi centigradi» spiega Federico Betti. «Detto così sembra un dato quasi trascurabile, ma in realtà gli ecosistemi marini sono cambiati completamente e gli effetti in mare sono molto gravi. Da oltre vent’anni assistiamo a periodiche morie di massa - prosegue Betti -, le più gravi delle quali sono state nel 1999 e nel 2003. Le ondate di caldo forte e prolungato hanno colpito gli organismi del fondo come ad esempio le gorgonie, che sono coralli molto grandi e importanti perché ospitano molti pesci nelle fasi giovanili, ma anche spugne, molluschi come l’arca di Noè, e recentemente anche la pinna nobilis, un mollusco endemico del Mediterraneo, è a rischio estinzione per via di un’infezione da parte di un protozoo favorito, presumibilmente, proprio dall’aumento delle temperature delle acque».
Fenomeni di questo genere, che avvengono sott'acqua e perciò pressoché sconosciuti al grande pubblico, hanno gravi conseguenze: «Assistiamo alla cosiddetta omogeneizzazione del fondale - prosegue Betti - e significa che nei nostri mari vivono sempre meno specie arborescenti e spugne: una riduzione della biodiversità che causa squilibri ecosistemici e innesca interazioni tra organismi differenti da quelle consuete». In altre parole, l’ecosistema si semplifica: «Quando accade non è mai un segnale positivo, perché significa che l’ambiente è meno resiliente e meno resistente, quindi più fragile».
Che succede… cinquemila metri sotto il mare?
Il Mar Mediterraneo, al largo del Peloponneso, supera i cinquemila metri di profondità. Uno spazio immenso e misterioso, in gran parte sconosciuto. «Dell’ambiente pelagico, cioè la zona di mare aperto, sappiamo poco o nulla» ammette Maurizio Würtz, professore emerito presso il Dipartimento di biologia dell’Università degli Studi di Genova nei corsi di anatomia comparata, cetologia e monitoraggio dei cetacei, museografia naturalistica ed ecologia applicata. «Del mare, infatti, conosciamo i primi cinquanta metri di profondità, sappiamo qualcosa del fondale della parte costiera, ma resta un grande punto interrogativo sulle biomasse animale e vegetale e sullo spostamento delle colonne d’acqua alla profondità tra i 50 e i 5000 metri. Ciò che sappiamo - aggiunge Würtz - è che il Mediterraneo è una macchina termoalina, funziona cioè in base alla sua temperatura e alla salinità». Per quanto riguarda la temperatura, l’acqua del Mediterraneo non scende mai sotto i 12 gradi, un caso pressoché unico dovuto alla scarsa profondità (300 metri appena) dello Stretto di Gibilterra che lo separa dall’Oceano Atlantico, che è invece decisamente più freddo. «Questa caratteristica fa sì che, nel Mediterraneo e in particolare nel Mar Ligure, avvenga frequentemente il rimescolamento delle acque profonde e di quelle di superficie che subiscono invece il raffreddamento causato dal vento - spiega il professor Würtz -. Questo rimescolamento consente di “concimare” gli strati superficiali e quindi di generare condizioni favorevoli» all’intera catena alimentare.
L’aumento della temperatura dell’acqua marina, tuttavia, rischia di spezzare questo delicato equilibrio: «La preoccupazione - prosegue Würtz - è che gli strati superficiali si riscaldino al punto da bloccare i flussi verticali delle masse d’acqua, e che pertanto non si crei quel rimescolamento con le acqua profonde che assicura il ripopolamento e rende possibile la pesca di grandi predatori come i tonni».
Che fare, dunque? Se da un lato occorre mitigare gli effetti del cambiamento climatico, dall’altro è indispensabile che la politica si impegni per «salvaguardare la funzionalità ecologica e i processi che rendono il Mediterraneo un mare ricco di biodiversità, pur essendo ridotto come superficie rispetto ai grandi oceani» conclude Würtz.
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